Revival De Andrè


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Revival De Andrè

Di Antonio Anzani

 

Ancora uno spettacolo di classe prodotto dalla Pro Loco di Petrizzi:

Fabrizio De Andrè  “ A furia di essere vento “ un prezioso e puntuale testo di Ulderico Nisticò, per la regia di Alfredo Battaglia che è stato anche il deus ex machina della parte musicale prevalente nello spettacolo, come potrebbe sembrare ovvio, anche se, come diremo, non è propriamente così.

Ce ne occupiamo perché lo spettacolo lo merita, ed anche per sopperire alla latitanza della  stampa locale che ha del tutto ignorato la serie delle nostre manifestazioni, alcune di rilievo internazionale ( cittadinanza onoraria e concerto  pianistico del Maestro Jun Kanno ) stampa che si occupa diffusamente di manifestazioni, in alcuni centri a volte miserevoli. Il nostro sito ha sopperito e sopperirà,  visto che in 4 mesi è stato visitato da circa 4.000 utenti.

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La riconosciuta onestà intellettuale di Ulderico Nisticò -che caratterizza da sempre le opinioni espresse talchè anche se non tutte condivise, sono pur sempre apprezzate in virtù di questa- ha precisato che tranne il fatto di essere anagraficamente un sessantottino non ha nulla in comune con De Andrè, almeno col De Andrè quale è stato ed è tuttora gabellato. Inoltre egli non intende presentarci un saggio completo su De Andrè,- che sarebbe stato fuori luogo nell’ambito di uno spettacolo di canzoni del cantautore non scelte da Nisticò- ma solo una presentazione storico-critica di queste.

Pur con questo limite impostosi,  l’Autore non ha mancato di impèostare l’opera di De Andrè  nel quadro dell’Italia tra euforia del dopoguerra e ripensamento, nei decenni successivi, in termini più pensosi, non senza l’accenno agli approdi politici che sfociarono nel 68: iter peraltro comune ad altri cantautori;  donde l’auspicio che presto Nisticò presenti un saggio completo sul fenomeno che si inquadra nel contesto della cultura italiana e dei suoi condizionamenti e indirizzi. Malgrado i limiti impostisi nella presentazione della piecè,

Nisticò analizza tutti gli aspetti della sua arte evidenziandone quelli essenziali e caratterizzanti: l’amore ( quello gioioso di Bocca di rosa che chi scrive accosta Lilì Marlen ) e la morte, quasi corteggiata più che presagita.

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Gli attori e cantanti:  adulti Alfredo Battaglia, Peppe Giorla, Pasquale Mosca, Ulderico Nisticò, Vittoria Santoro; attori giovani  Silvia Battaglia, Gianluca Celia, Gilda Mirarchi, Antonella Paonessa,  ( anche l’Autore si inserisce quale attore protagonista nella piecè ) cinque sono ultracinquantenni: vale a dire che hanno vissuto la loro giovinezza  circondati ( o soggiogati ) dal mito di De Andrè;  essi, in conseguenza non interpretano un personaggio, ma se stessi ( se ne distacca perché,  anche come personaggio, ha un ruolo critico l’Autore ): i quattro bravissimi giovani sono anch’essi attratti nella stessa orbita dell’amore e delle predilezioni paterne e forse   anche dalle stesse inquietudini, da certo ribellismo che è proprio dei giovani di ogni generazione.

Tutti sono stati bravissimi ed efficaci, alcuni eccellenti, come di rado avviene per un’intera compagnia.

Spettacolo misurato per lunghezza e contenuto, di musica e poesia, ben supportato tecnicamente da Alfredo e Francesco Paonessa e dalla personale cura del presidente Celia.

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Mi tocca ora accennare all’aspetto più discutibile, allo zoccolo duro, che non riguarda lo spettacolo visto, ma la figura stessa di De Andrè.

Non c’è bisogni di essere Paolo Isotta per rilevare la povertà musicale di De Andrè al quale non si chiedeva certo di essere Mozart nel suo Don Giovanni, ricco di una tragica ouverture e di ben 26 numeri  e pezzi d’insieme non certo ripetitivi;  se fossimo Paolo Isotta e quindi in grado di fare un’analisi musicale strutturale, dimostreremmo la povertà musicale cui si accennava,  due tre temi sempre ripetuti,                anche se suggestivi e accattivanti.

Azzardiamo l’ipotesi che De Andrè  considerasse la parte musicale delle sue creazioni poco più che una cornice alle sue poesie che, al contrario, toccano infinite tematiche con estrema sensibilità che trascina e commuove, fino a trascinare anche spettatori come me, estranei anagraficamente e culturalmente al mondo di Fabrizio, quando si affrontano temi ( così come rilevato da Nisticò ) quali l’amore e la morte.

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Il mio occhio, mentre mi contorcevo sui durissimi gradini dell’auditorium per dar tregua al mal di schiena, si portava sulla numerosa platea, in gran parte di coetanei degli attori, come rivelavano gli addomi pingui di molti uomini, la bellezza sfiorita di molte donne, che si illuminavano e addolcivano alla commozione crescente con lo svolgimento del revival; che sulle ali della nostalgia, li riportava alla loro verde età, a quel sessantotto che poteva cambiare il mondo e non lo cambiò, che poteva cambiare loro stessi e non li cambiò: tutto risolvendo in nostalgia, cioè non risolvendo nulla, se non un’ora di emozioni anche profonde destinate a dissolversi come le nubi dopo un temporale d’estate.

Tutto ciò c’entra solo marginalmente con lo spettacolo, è esterno ad esso ma non ad esso estraneo, è una prova in più, se ce ne fosse bisogno, che esso è pienamente riuscito.