L’altro braccio del golfo Quale metafora della vita


Vivo da venti anni in una casa vista mare, sull’estremo braccio
meridionale del golfo, assai ampio, di Squillace, in posizione che mi
consente di godere il meraviglioso spettacolo dell’aurora che non cesso di
ammirare, commovendomi: solo per questo, ormai, non avendo più
impegni di lavoro, continuo ad alzarmi in ore antilucane.
Ed ogni mattina ringrazio Iddio del nuovo giorno che ha dato alla mia vita,
e mentalmente Lo prego di darmene altri ed altri ancora e di allontanare il
giorno in cui la gioia dell’Aurora mi sarà tolta.
Inevitabilmente, pensieri e meditazioni si agitano nella mia mente, come,
credo, nella mente di tutti, sulla morte che scienza e fedi religiose
considerano ineluttabile, fatale, per quanto crudele e dolora essa sia; un
evento naturale come la nascita, il crescere, l’avere figli, invecchiare e …
morire.
Perfino gli uomini di scienza – che, pure, hanno contribuito a portare la
speranza di vita ai livelli attuali, doppi di quelli di appena cento
centocinquanta anni fa ritengono il limite dei 120 anni l’estremo limite
possibile della vita umana, autolimitando, così, la possibilità di ricerca e di
successo della scienza che, pure, ha consentito di avere, oggi, solo in
Italia, parecchie miglia di centenari.
In termini di culture e di religioni, è sintomatico che la morte venga
considerata una punizione, generata da una disobbedienza alla Divinità
(Bibbia) o all’ira degli dei (Metamorfosi) per la nequizia degli uomini, o del
destino di chiunque voglia salvare l’umanità, come nella mitologia nordica
dei Nibelunghi.
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La Bibbia (Genesi, 3/17 – 19) recita:
“Poiché tu hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato del frutto
dell’albero, che ti avevo espressamente proibito di mangiare, la terra sarà
maledetta per causa tua; con lavoro faticoso riceverai da quella il tuo
nutrimento per tutti i giorni della tua vita, essa ti produrrà spine e triboli;
ti nutrirai dell’erba dei campi; col sudore di tua fronte mangerai il pane,
finché resterai sulla terra, da cui sei stato tratto, poiché tu sei polvere e in
polvere ritornerai”.
E ancora (Bibbia, 3/22)
“Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, avendo la conoscenza del
bene e del male. Ora facciamo sì che egli non possa più stendere la sua
mano, né cogliere ancora del frutto dell’albero della vita, per mangiare e
vivere in eterno”.
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Nelle Metamorfosi ovidiane (ma le citazioni dalle letterature classiche
potrebbero essere tante) leggiamo (Libro I) del Concilio degli dei indetto
da Giove allorché, alla età dell’oro, dell’argento, del bronzo, subentrò
quella del ferro: allora “fece irruzione ogni tipo di empietà: mentre il
pudore, la verità, e la fede fuggirono, al loro posto subentrarono la frode,
l’inganno, l’insidia, la violenza e la turpe avarizia”. Libro I vv. 129-131) “E il
male, per Giove, è più grave di quando i Giganti tentarono la scalata del
cielo, perché è generalizzato: “ora, invece, si tratta di tutta la terra che
Nereo circonda coi suoi flutti risonanti: quindi tutta la stirpe dei mortali va
distrutta. Giuro sui fiumi infernali che scorrono sotto la terra attraverso il
bosco Stigio, di aver tentato tutto prima di giungere a questo: ma se un
male incurabile affligge il corpo, va inciso col ferro, perché la parte sana
non sia contagiata”. (Libro I, vv. 188-191)
Si decide, quindi, per la punizione del diluvio, cosi come, per analoghe
infamie, il Dio della Bibbia punirà il genere umano (Genesi, 6/ 1-14).
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La stessa concezione della morte come punizione inflitta dalla divinità si
riscontra nell’ambito culturale nord europeo, nella leggenda dei
Nibelunghi (materia del poema di R.Wagner Der Ring des Nibelungen,
dallo stesso Wagner musicato nelle quattro monumentali opere che
costituiscono la sua Tetralogia); leggenda assai complessa, per certi
aspetti quanto le complesse genealogie della Bibbia.
Ridotta al suo nucleo essenziale, protagonista ideale di tutto il mito è
l’oro che, sottratto alle figlie del Reno con la frode da Wotan, diventa
fonte di corruzione e di morte.
La maledizione di Wotan colpisce la figlia e anche la sua discendenza
(quale analogia col biblico peccato originale che si estende a tutta
l’umanità): Brunilde giace addormentata in un cerchio di fuoco che potrà
essere attraversato solo da un eroe purissimo: sarà Sigfrido che la bacia:
ella si sveglia e la passione li travolge.
Il destino di Sigfrido è però segnato, l’anello d’oro che egli ha sottratto al
drago uccidendolo gli sarà fatale: Hagen, il genio del male, lo ucciderà ed
egli arderà nel fuoco del Walhalla (il paradiso degli dei germanici, come
l’Eden biblico e l’Olimpo ellenico).
Nel rogo si getterà anche Brunilde, così che il fuoco la travolgerà con
Sigfrido, l’anello, gli dei, e l’umanità tutta che sarà salva perché il Reno
straripa e riporterà l’anello nel suo alveo dal quale era stato sottratto,
corrompendola.
La morte ha punito tutti, dei ed esseri umani, per il male rappresentato
dall’anello dalla cupidigia corruttrice dell’oro, ma l’umanità è stata
redenta.
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Le citazioni riportate conducono alla conclusione che la morte, anche in
ambiti culturali diversi, viene intesa come una punizione.
È certamente un mistero, difficile da spiegarsi e, conseguentemente,
genera angoscia, anche per le circostanze più diverse che la provocano.
Neppure la speranza di una vita ultraterrena basta, seppure credenti;
basta forse ad alcuni “Santi”; perfino molti atei si rammaricano di esserlo
perché manca loro quel filo di speranza cui aggrapparsi.
In siffatti pensieri lo spettacolo dell’Aurora svanisce e dà luogo al trionfo
del sole che attenua ma non dissolve gli angosciosi pensieri.
Il golfo del quale, in anni meno gravi, il mio sguardo disperdeva all’infinito
l’altro braccio – si restringe e mi chiude, ci chiude dentro le sue braccia,
sempre più strette fino a soffocarci.
Quando il golfo era ancora aperto all’infinito dinanzi a noi, quanti
compagni di viaggio abbiamo avuto? Di tanti abbiamo perso le tracce, di
alcuni perfino la memoria; se li cerchiamo la prima domanda che
poniamo è assai triste: “è ancora in vita?”
Non ho mai neppure pensato a quei tristissimi raduni, dopo venti o più
anni, di compagni di scuola memore di un noto bellissimo film
sull’argomento, appunto “Compagni di scuola”.
E poi, a che pro? Per sentirsi dire, all’appello, attorno ad una tavola
imbandita, “è morto l’anno scorso” o “si è suicidato” e contarsi e trovarsi
sempre meno numerosi?
Forse aveva ragione una mia cara compagna di liceo la cui figlia conobbi
l’altra estate in una serata di festa fra amici che mi parlò della madre, di
quanto spesso le parlasse di me e si offrì di telefonarle subito. Rispose
benché fosse molto tardi, cordialmente e affettuosamente.
Ma quando le dissi che desideravo incontrarla rifiutò decisamente:
“Antonio, è meglio che ci ricordiamo come eravamo”.
L’altro braccio del golfo, Lei lo aveva già chiuso.
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Come quanti andiamo a visitare, il giorno dei morti, al Cimitero, nostri
compagni di viaggio del quali non resta che la nostra corta memoria

 

Antonio ANZANI